Nella newsletter di dicembre potrai trovare alcune sentenze in materia di diritto del lavoro.
Il Focus di questo mese è: INFORTUNI SUL LAVORO.
Cliccando sui singoli link, oltre ai contenuti già presenti nell’articolo, troverai le sentenze integrali da cui sono tratti.
Buona lettura della newsletter!
Tribunale di Bergamo sentenza n. 1066 del 3.10.2024
La sentenza del Tribunale di Bergamo, si occupa di un caso di infortunio sul lavoro che ha coinvolto una dipendente di un Azienda Socio-Sanitaria. La ricorrente ha subito un infortunio durante una prova pratica per l’abilitazione all’elisoccorso, evento che ha sollevato questioni rilevanti riguardo alla qualificazione dell’assenza e all’indennizzabilità dell’infortunio stesso. In primo luogo, il Tribunale ha dovuto stabilire se l’incidente fosse avvenuto “in occasione di lavoro”. La giurisprudenza italiana, in particolare l’art. 2 del d.p.r. n. 1124 del 1965, stabilisce che non è necessario che l’infortunio avvenga durante lo svolgimento delle mansioni lavorative tipiche; è sufficiente che ci sia una connessione con l’attività lavorativa. In questo caso, il Giudice ha ritenuto che la prova per l’abilitazione fosse strumentale all’attività lavorativa della ricorrente, confermando così la sussistenza dell’occasione di lavoro. In secondo luogo, la sentenza chiarisce che l’infortunio subito dalla ricorrente non deve essere considerato solo in base alla tipicità del rischio, ma anche in relazione a tutte le circostanze ambientali e socioeconomiche in cui si svolge l’attività lavorativa. Questo approccio amplifica la protezione assicurativa per i lavoratori, estendendo la copertura anche a situazioni non strettamente legate alle mansioni quotidiane. Inoltre, il Tribunale ha affrontato le argomentazioni dell’INAIL, che aveva inizialmente riconosciuto l’indennità per inabilità temporanea ma poi negato il risarcimento per la menomazione permanente, sostenendo che l’infortunio non fosse riconducibile a un rischio lavorativo. Tuttavia, il Giudice ha ribadito che la qualificazione dell’evento come infortunio sul lavoro era giustificata dalla natura strumentale della prova e dalla volontà della ricorrente di ampliare le proprie competenze professionali. Infine, il Tribunale ha accolto le richieste della ricorrente, ordinando all’INAIL di riconoscere l’infortunio come tale e di procedere al pagamento dell’indennizzo per danno biologico. Questa decisione rappresenta un importante precedente nella tutela dei diritti dei lavoratori e sottolinea la necessità di una valutazione più ampia delle circostanze in cui si verificano gli infortuni.
Licenziamento per post su Facebook: tutela o diffamazione?
Corte di Cassazione ordinanza n. 26446 del 10.10.2024
L’ordinanza del 2024 affronta una questione centrale nel diritto del lavoro italiano: l’equilibrio tra potere datoriale e tutela del lavoratore. In primo luogo, la Cassazione conferma la necessità che i licenziamenti individuali per giustificato motivo siano sorretti da una motivazione concreta, verificabile e proporzionata, ribadendo l’importanza del controllo giurisdizionale sulla legittimità di tali decisioni. Un tema chiave è la valutazione del nesso causale tra la condotta del dipendente e il provvedimento di licenziamento, con l’obbligo per il datore di lavoro di dimostrare che il comportamento contestato ha effettivamente pregiudicato l’organizzazione aziendale. La decisione sottolinea come non siano sufficienti affermazioni generiche, ma occorra una prova rigorosa dell’incidenza negativa. Un aspetto interessante è il richiamo alla progressività delle sanzioni disciplinari. La Corte ribadisce che il licenziamento, quale sanzione estrema, deve essere proporzionato alla gravità della violazione, rispettando la gradualità delle misure correttive previste dal contratto collettivo applicabile. Ciò rafforza la protezione dei lavoratori da provvedimenti arbitrari o sproporzionati. Inoltre, l’ordinanza evidenzia il ruolo cruciale del principio di buona fede e correttezza nei rapporti di lavoro, sia nella fase di contestazione disciplinare che nel successivo iter giudiziario. Questo principio non solo vincola le parti, ma guida l’interpretazione delle norme da parte dei giudici, promuovendo un equilibrio tra interessi contrapposti. Infine, il pronunciamento rimarca l’importanza della coerenza e chiarezza nell’applicazione delle norme disciplinari, evidenziando che lacune o discrepanze nelle politiche aziendali possono invalidare i provvedimenti adottati. Ciò riflette una tendenza giurisprudenziale verso una maggiore trasparenza e responsabilità gestionale. In sintesi, questa ordinanza rafforza le garanzie procedurali e materiali a tutela dei lavoratori, senza pregiudicare le legittime esigenze organizzative dei datori di lavoro. La sua portata è significativa per consolidare un sistema di relazioni industriali fondato sull’equità e sul rispetto reciproco.
Neoplasia polmonare professionale: onere della prova a carico del datore
Corte di Cassazione ordinanza n. 26390 del 10.10.2024
L’ordinanza analizza un caso di responsabilità del datore di lavoro per esposizione professionale a sostanze nocive, in particolare amianto, che si ritiene abbiano causato la patologia tumorale di un dipendente. La questione si articola attorno alla valutazione del nesso causale tra esposizione e malattia e all’onere della prova. Il Tribunale e la Corte d’Appello avevano rigettato la domanda dei ricorrenti per mancanza di prove specifiche, affermando che il danno non era dimostrabile in modo sufficiente né quanto all’esposizione né rispetto alla connessione causale con l’attività lavorativa. La Cassazione, tuttavia, riformula il quadro probatorio. Un punto cardine della decisione è il richiamo alla presunzione legale del nesso causale, riconosciuta per malattie tabellate come il tumore polmonare in relazione a specifiche lavorazioni indicate nelle normative. La Corte chiarisce che il lavoratore deve dimostrare il tipo di attività svolta e la malattia contratta, mentre spetta al datore di lavoro l’onere di provare cause alternative non correlate all’attività professionale. Inoltre, l’ordinanza ribadisce il principio di equivalenza causale secondo l’art. 41 c.p., riconoscendo rilevanza a ogni fattore che contribuisca all’evento lesivo, salvo si dimostri una causa esclusiva estranea. Questo principio rafforza la tutela del lavoratore, poiché non è necessario provare una causa unica e diretta. Un altro aspetto fondamentale è il dovere datoriale ex art. 2087 c.c., che richiede l’adozione di tutte le misure necessarie a preservare la salute del lavoratore in base alle conoscenze scientifiche disponibili, indipendentemente dalla presenza di norme specifiche. La Cassazione evidenzia come le cautele sull’amianto fossero già note da anni, rendendo inaccettabile la giustificazione del datore sul presunto deficit conoscitivo. La sentenza richiama infine il valore probatorio delle certificazioni INAIL e dei documenti di esposizione ad amianto, affermando che essi possono integrare il quadro probatorio anche al di fuori del contesto previdenziale.
Licenziato per rifiuto del divieto di indossare gli orecchini durante il lavoro?
Corte di Cassazione ordinanza n. 26145 7.10.2024
L’ordinanza riguarda il licenziamento per giusta causa di un lavoratore che aveva ripetutamente ignorato un ordine aziendale legato alla sicurezza sul lavoro. Il caso nasce dalla contestazione di comportamenti di insubordinazione legati al mancato rispetto del divieto di indossare orecchini metallici durante il lavoro, imposto per motivi di sicurezza. Dopo un iniziale licenziamento, successivamente revocato, il datore di lavoro aveva reiterato la sanzione disciplinare sulla base di ulteriori episodi, inclusi quelli che avevano portato al primo provvedimento. Il Tribunale aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, rilevando l’assenza del lavoratore il giorno indicato per l’ultimo episodio. Tuttavia, la Corte d’Appello aveva ribaltato la decisione, ritenendo provata la condotta insubordinata e precisando che la data indicata nella lettera di licenziamento fosse un errore materiale. La Cassazione conferma quest’ultima valutazione, ribadendo che non vi è stata una violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare poiché i fatti oggetto del licenziamento erano rimasti invariati. Un aspetto centrale della sentenza riguarda il concetto di proporzionalità della sanzione. La Cassazione ha avallato la decisione della Corte d’Appello secondo cui i comportamenti del lavoratore, consistenti in rifiuti ripetuti e modalità inurbane, costituivano una grave violazione dei doveri di diligenza, buona fede e correttezza, giustificando la risoluzione del rapporto. La Corte ha inoltre sottolineato che, in sede di legittimità, non è possibile rivedere l’apprezzamento dei fatti svolto dal giudice di merito, se motivato in modo logico e conforme alla legge. Ha altresì escluso la lesione del diritto di difesa del lavoratore, chiarendo che l’errore materiale nella data non ha inciso sull’effettiva possibilità di predisporre adeguate difese.
Riduzione retributiva: validità dell’accordo tra limiti e formalità
Corte di Cassazione ordinanza n. 26320 del 9.10.2024
La sentenza affronta questioni fondamentali riguardanti il diritto del lavoro, in particolare la validità degli accordi di riduzione della retribuzione e la legittimità delle dimissioni per giusta causa. Il caso in esame coinvolge un dirigente che si è dimesso sostenendo di avere giusta causa nella riduzione unilaterale della sua retribuzione e di un cambiamento nel trattamento economico dell’auto aziendale. La Corte d’Appello di Milano aveva dichiarato la nullità dell’accordo tra le parti per la riduzione della retribuzione, affermando che tale modifica doveva essere effettuata in sede protetta secondo l’articolo 2103 del codice civile. Questa norma stabilisce che ogni modifica delle condizioni economiche deve avvenire con il consenso del lavoratore e in contesti che garantiscano la sua tutela. La Corte ha anche ritenuto illegittima la decisione della società di addebitare al dirigente costi maggiori per l’uso dell’auto aziendale, considerandola parte della retribuzione. Un aspetto cruciale della sentenza è l’affermazione della sussistenza di giusta causa nelle dimissioni del lavoratore, evidenziando come il comportamento dell’azienda, che non ha risposto a una diffida inviata dal dipendente, abbia contribuito a questa valutazione. La Corte ha stabilito che le dimissioni erano legittime e ha condannato la società a pagare somme significative per differenze retributive e indennità sostitutiva del preavviso. In sintesi, la sentenza riafferma i principi di protezione dei diritti dei lavoratori, sottolineando l’importanza di rispettare le procedure legali nella modifica delle condizioni lavorative e nel trattamento economico. Essa rappresenta un importante precedente per i casi futuri riguardanti le dimissioni per giusta causa e le modifiche contrattuali nel contesto lavorativo.
Socio-lavoratore: diritto al TFR sempre garantito
Corte di Cassazione ordinanza n. 26071 del 4.10.2024
La sentenza affronta una questione complessa riguardante il trattamento di fine rapporto (TFR) per i soci lavoratori di cooperative. La Corte ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Milano, che aveva condannato la cooperativa e la committente a pagare in solido al lavoratore una somma a titolo di TFR, oltre ad altre somme per contributi previdenziali trattenuti. La Corte ha rigettato il ricorso della committente, che sosteneva che il TFR non fosse dovuto in quanto il lavoratore era anche socio della cooperativa. La Corte ha chiarito che il TFR è dovuto anche ai soci lavoratori di cooperative, in quanto la legge n. 142/2001 ha stabilito che il rapporto di lavoro subordinato dei soci di cooperative è distinto e ulteriore rispetto al rapporto associativo. Questo significa che i soci lavoratori hanno diritto alle stesse tutele previste per i lavoratori subordinati, inclusa quella del TFR. La Corte ha sottolineato che non vi è alcuna incompatibilità tra il diritto al TFR e la posizione di socio lavoratore di cooperativa, e che la legge n. 142/2001 ha eliminato le incertezze precedenti in merito a questa questione. In sintesi, la sentenza ribadisce l’importanza della tutela dei diritti dei lavoratori, anche quando questi sono soci di cooperative, e conferma che il TFR è un diritto inalienabile che spetta a tutti i lavoratori subordinati, indipendentemente dalla loro posizione associativa
Pescheria in Supermercato: Dipendente Chiede Differenze Retributive
Cassazione Civile sentenza n. 26881 del 16.10.2024
La sentenza affronta il tema della responsabilità solidale prevista dall’art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003 nei rapporti tra aziende della grande distribuzione organizzata (GDO) e società terze affidatarie della gestione di reparti interni ai supermercati. Le lavoratrici ricorrenti, dipendenti di una società fallita, avevano richiesto differenze retributive alla società committente, invocando la responsabilità solidale. La Corte d’Appello di Firenze aveva escluso tale responsabilità, qualificando il contratto come “atipico“, ma la Cassazione ha accolto il ricorso. Il principio chiave enunciato dalla Corte Suprema è che la qualificazione formale del contratto come “atipico” non preclude l’applicazione della responsabilità solidale se si ravvisa una dissociazione tra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione lavorativa. Questo evita che il decentramento produttivo danneggi i lavoratori. Secondo la Cassazione, il criterio decisivo è individuare il “maggior rischio d’impresa” e l’eventuale squilibrio economico contrattuale tra le parti, valutando aspetti come: il controllo esercitato dal committente, le modalità di gestione, e l’interesse economico concreto dell’operazione. La Corte sottolinea che la tutela dei lavoratori non può essere limitata alla tipologia formale di contratto ma deve estendersi a tutte le situazioni che comportano una separazione tra l’effettivo beneficiario della prestazione lavorativa e il datore di lavoro formale. Con tale sentenza, la Cassazione rafforza la protezione dei lavoratori nelle filiere produttive decentralizzate, ribadendo la portata estensiva dell’art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003. La sentenza è rinviata alla Corte d’Appello per un nuovo esame, precisando che il principio di diritto richiede un’analisi concreta dei fatti per determinare l’applicabilità della responsabilità solidale.
Si allontana dall’ufficio senza timbrare il cartellino? Va licenziato
Cassazione Civile sentenza n. 26938 del 17.10.2024
La sentenza esamina il licenziamento disciplinare di un dipendente pubblico, oggetto di procedimento disciplinare e penale per presunte irregolarità sul luogo di lavoro. Il lavoratore, accusato di falsa attestazione della presenza in servizio e altre violazioni, aveva impugnato il licenziamento sostenendo, tra l’altro, la tardività e la genericità della contestazione disciplinare, oltre che la sproporzione della sanzione espulsiva. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, confermando la decisione della Corte d’Appello. Tra gli aspetti salienti, la Corte ha chiarito che:
- Decorrenza del termine per la contestazione disciplinare: Il termine perentorio decorre dalla comunicazione formale della “notizia di infrazione” in termini tali da consentire l’avvio corretto del procedimento disciplinare, indipendentemente dall’esistenza di indagini penali parallele.
- Specificità della contestazione disciplinare: È sufficiente che la contestazione, anche per relationem, consenta al lavoratore di individuare i fatti materiali addebitati e preparare adeguatamente la difesa.
- Falsa attestazione di presenza: Il mancato rispetto delle regole di registrazione delle uscite, se accompagnato da comportamenti fraudolenti, integra l’ipotesi di falsa attestazione disciplinare, come previsto dall’art. 55-quater del D.Lgs. n. 165/2001.
- Proporzionalità della sanzione: Pur trattandosi di una fattispecie di illecito disciplinare tipizzato con sanzione espulsiva, il giudice deve verificare la proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’inadempimento. Nel caso di specie, le condotte del lavoratore sono state ritenute tali da minare il rapporto fiduciario con l’amministrazione.
La sentenza ribadisce l’importanza della tutela dell’interesse pubblico e della correttezza nei rapporti di lavoro, in particolare nel contesto del pubblico impiego, dove la fiducia e il rispetto delle regole sono fondamentali. Inoltre, sottolinea l’autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, evitando automatismi nella decisione ma confermando la severità in caso di condotte fraudolente e dannose per la pubblica amministrazione.
Permessi Legge 104/1992: Il datore non può imporre modalità
Cassazione Civile ordinanza n. 26514 del 11.10.2024
L’ordinanza analizza il licenziamento disciplinare di un lavoratore per presunto abuso dei permessi retribuiti concessi ai sensi dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992, utilizzati per l’assistenza a un familiare disabile. La Corte chiarisce che il diritto ai permessi è strettamente legato alla finalità assistenziale, ma non implica una coincidenza rigida tra orario lavorativo e assistenza prestata. Tale diritto deve essere interpretato in modo olistico: l’assistenza può coprire l’intera giornata di permesso senza vincoli orari specifici. L’abuso del diritto si configura solo se i permessi sono usati per scopi diversi dall’assistenza. La Corte critica l’approccio della Corte d’Appello, che si è concentrata sull’assenza di assistenza durante il turno lavorativo, senza considerare che i turni erano stabiliti dopo la richiesta dei permessi. Viene ribadito che spetta al datore di lavoro reagire a eventuali abusi comprovati, ma non ha diritto di sindacare a priori la scelta del lavoratore su come organizzare il tempo di assistenza. In conclusione, l’ordinanza sottolinea che:
- Il permesso è giornaliero e non deve coincidere rigidamente con l’orario lavorativo.
- L’assistenza va intesa in senso ampio, comprendendo attività che il familiare disabile non può svolgere autonomamente.
- Il controllo del datore di lavoro è limitato alla verifica di eventuali abusi documentati.
La decisione garantisce un equilibrio tra il diritto del lavoratore a prestare assistenza e le esigenze organizzative del datore di lavoro, evitando un’interpretazione formalistica della normativa.
Entrata Fuori Orario: Niente Licenziamento
Cassazione Civile ordinanza n. 27698 del 25.10.2024
La sentenza della Corte di Cassazione si inserisce in un contesto di crescente attenzione verso la legittimità dei licenziamenti disciplinari, specialmente in situazioni in cui le condotte dei lavoratori sono contestate in modo controverso. In questo caso specifico, la Corte d’Appello di Milano aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di un dipendente ritenendo che le infrazioni contestate non giustificassero una sanzione espulsiva ma, al più, una sanzione conservativa. La Corte ha esaminato dettagliatamente le circostanze del caso, evidenziando che l’accesso del lavoratore all’azienda al di fuori del suo turno non era avvenuto in modo clandestino e che non vi erano prove di comportamenti pericolosi o dannosi per l’azienda. Inoltre, il dipendente rivestiva un ruolo sindacale e il suo accesso era legato a manifestazioni di protesta, circostanza che ha contribuito a ridimensionare la gravità della sua condotta. Un aspetto cruciale della sentenza è l’applicazione del principio di proporzionalità nella valutazione delle sanzioni disciplinari. La Corte ha sottolineato come la contrattazione collettiva debba essere rispettata nel determinare le sanzioni appropriate per le condotte dei lavoratori. In questo caso, le infrazioni erano riconducibili a fattispecie punibili con sanzioni conservative secondo il contratto collettivo applicabile, rendendo quindi illegittimo il licenziamento. La decisione della Cassazione si allinea con orientamenti precedenti e conferma la necessità di un’interpretazione rigorosa delle norme disciplinari e delle relative sanzioni. Essa mette in luce l’importanza di considerare non solo la condotta del lavoratore ma anche il contesto in cui essa si è verificata, evidenziando come la tutela dei diritti dei lavoratori debba essere bilanciata con le esigenze aziendali. In sintesi, questa sentenza rappresenta un importante passo avanti nella protezione dei diritti dei lavoratori, riaffermando il principio che il licenziamento deve essere l’ultima risorsa e deve sempre essere giustificato da motivi concreti e proporzionati.
Licenziamento per badge timbrato da collega
Cassazione Civile ordinanza n. 28248 del 4.11.2024
La sentenza affronta un caso di licenziamento disciplinare legato a comportamenti fraudolenti da parte di una dipendente. La questione centrale riguarda la timbratura del badge aziendale, dove la lavoratrice è stata accusata di aver fatto timbrare il badge da un collega prima del suo effettivo arrivo in azienda. Questo comportamento è stato ritenuto una violazione grave delle norme aziendali e delle aspettative di correttezza nel rapporto di lavoro. La Corte d’Appello di Napoli, confermata dalla Cassazione, ha stabilito che l’addebito era provato sia sotto l’aspetto oggettivo che soggettivo. L’elemento oggettivo è rappresentato dalla prova che la lavoratrice non era presente in azienda al momento della timbratura, mentre l’elemento soggettivo si riferisce all’intenzionalità della condotta fraudolenta. È stato sottolineato che la gravità dell’infrazione giustificava il licenziamento, considerando anche il ruolo professionale della lavoratrice e la sua esperienza. Un aspetto rilevante emerso dalla sentenza è la questione della proporzionalità della sanzione rispetto all’infrazione. La Corte ha ritenuto che il licenziamento fosse una risposta adeguata alla violazione dei doveri contrattuali, nonostante le obiezioni della lavoratrice riguardo alla mancanza di una sanzione conservativa prevista dal contratto collettivo. La decisione sottolinea l’importanza del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, affermando che il datore di lavoro deve garantire una correlazione tra l’addebito e la sanzione. In questo caso, nonostante le critiche sulla formulazione della lettera di licenziamento, i fatti addebitati sono stati considerati sufficientemente gravi per giustificare il provvedimento espulsivo.
Licenziamento per uso improprio dei permessi sindacali
Cassazione Civile ordinanza n. 29135 del 12.11.2024
La sentenza della Corte di Cassazione n. 29135/2024 affronta un caso significativo in materia di licenziamento disciplinare, con particolare riferimento all’uso improprio dei permessi sindacali. Nel caso specifico, un dirigente sindacale provinciale è stato licenziato per aver utilizzato due permessi sindacali per scopi personali, accompagnando il figlio a sostenere prove di arruolamento militare, invece di svolgere attività sindacale. La Corte conferma la legittimità del licenziamento, sottolineando la necessità che i permessi sindacali siano utilizzati esclusivamente per finalità istituzionali e non per interessi personali. Elementi cruciali della decisione includono: la conferma della possibilità del datore di lavoro di verificare l‘effettivo utilizzo dei permessi sindacali, la valutazione che l’indagine conoscitiva non ha violato la privacy (essendosi svolta in luoghi pubblici), e la proporzionalità della sanzione del licenziamento rispetto alla condotta fraudolenta. La Cassazione ribadisce che l’abuso dei permessi sindacali, soprattutto da parte di un dirigente provinciale, compromette irrimediabilmente il rapporto fiduciario. La sentenza è significativa perché chiarisce i limiti dell’utilizzo dei permessi sindacali, precisando che questi devono essere strettamente connessi all’attività sindacale e non possono essere strumentalizzati per scopi personali. La Corte evidenzia come l’istituto dei permessi sindacali sia volto alla tutela dei diritti collettivi e non possa essere utilizzato come uno strumento di comodo per assenze dal lavoro.
Licenziamento via cloud: legittimo ma precoce
Corte Appello Milano sentenza n. 647 del 2.09.2024
La sentenza n. 647 del 2 settembre 2024 della Corte d’Appello di Milano riguarda il licenziamento di un autista da parte di una società di servizi postali. Il lavoratore aveva contestato il licenziamento, sostenendo che era stato comunicato solo oralmente e senza il rispetto delle procedure previste dalla legge e dal contratto collettivo. La società, invece, aveva utilizzato una piattaforma digitale per tutte le comunicazioni, inclusa quella del licenziamento. Il Tribunale di primo grado aveva rigettato il ricorso del lavoratore, ritenendo che il licenziamento fosse stato comunicato correttamente tramite la piattaforma digitale e che le contestazioni disciplinari fossero state adeguatamente notificate. La Corte d’Appello ha confermato questa decisione, sottolineando che l’uso della piattaforma digitale era conforme alla legge, purché garantisse la riservatezza e la consapevolezza del lavoratore. La Corte ha anche esaminato le contestazioni disciplinari, rilevando che il lavoratore non si era fermato dopo due incidenti stradali e non aveva fornito i dettagli richiesti. Questi comportamenti, considerati gravi inadempimenti, giustificavano il licenziamento per giusta causa. Tuttavia, la Corte ha riconosciuto un vizio procedurale nel mancato rispetto del termine di cinque giorni tra la contestazione e il licenziamento, condannando la società al pagamento di un’indennità pari a due mensilità. Inoltre, la Corte ha parzialmente accolto l’appello incidentale della società, riconoscendo il diritto al risarcimento per alcune sanzioni stradali e penali previste dal regolamento aziendale, ma ha rigettato la richiesta di risarcimento per i danni ai veicoli, mancando prove sufficienti.
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