Pubblicato il: 23 Giugno 2025

Nella newsletter di giugno potrai trovare alcune sentenze in materia di diritto del lavoro.

Il Focus di questo mese è: Licenziamento per molestie: la giusta causa va calibrata sui valori costituzionali.

Buona lettura della newsletter!

In questa ordinanza la Corte di Cassazione interviene sul delicato bilanciamento tra il potere disciplinare del datore di lavoro e i principi costituzionali a presidio della dignità della persona nel contesto lavorativo. Il caso riguarda il licenziamento per giusta causa di una dipendente accusata di aver rivolto ripetute molestie sessuali nei confronti di un collega. Dopo un primo rigetto da parte del Tribunale e la parziale riforma della Corte d’Appello di Milano – che ha escluso la proporzionalità del licenziamento pur confermando la materialità dei fatti – la Cassazione accoglie il ricorso del datore di lavoro, evidenziando una errata valutazione della clausola generale della giusta causa. La Corte censura il giudizio di merito per aver trascurato elementi essenziali: la reiterazione e l’intensità delle condotte, il loro svolgimento alla presenza di terzi, il pregiudizio alle dinamiche aziendali e il contrasto con il Codice di Condotta aziendale e il Regolamento disciplinare. Viene sottolineato che, in presenza di comportamenti sessualmente molesti, occorre applicare il principio di proporzionalità non solo in base all’assenza di precedenti disciplinari, ma valorizzando il quadro normativo complessivo: l’art. 2087 c.c., l’art. 26 del Codice delle Pari Opportunità, la Direttiva 2002/73/CE, nonché le norme contrattuali collettive. La Corte rimarca che le molestie, oltre a rappresentare una grave lesione della dignità della persona, minano il clima lavorativo e ledono la fiducia essenziale al rapporto di lavoro. La valutazione di proporzionalità deve dunque tener conto della gravità oggettiva e soggettiva del fatto e della centralità della tutela della persona nel contesto lavorativo, quale espressione dei valori degli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost. Il giudice di legittimità richiama, inoltre, precedenti conformi che riconoscono come legittimo il licenziamento per molestie, anche in assenza di danni materiali o precedenti disciplinari, qualora emerga una intollerabile lesione della relazione fiduciaria. La sentenza impugnata viene dunque cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello per una nuova valutazione aderente ai valori costituzionali e alla scala valoriale evolutiva che caratterizza l’ordinamento contemporaneo.

Illegittimo licenziamento per rifiuto di mansioni inferiori

Corte di Cassazione civile ordinanza n. 10730 del 23.04.2025

Illegittimo licenziamento per rifiuto di mansioni inferiori In questa sentenza la Corte di Cassazione affronta un caso emblematico in tema di demansionamento e licenziamento disciplinare. Un lavoratore, destinatario di una sanzione espulsiva per essersi rifiutato di svolgere mansioni inferiori rispetto a quelle contrattualmente previste, ricorre contro la decisione del datore di lavoro. La Corte d’Appello aveva rigettato la sua domanda, ma la Cassazione ribalta l’esito del giudizio, accogliendo il ricorso. La Suprema Corte chiarisce che il rifiuto del lavoratore di eseguire mansioni che rappresentino un evidente demansionamento, non soltanto è giustificato, ma è anche legittimo se fondato sul rispetto dell’art. 2103 c.c., che tutela la dignità professionale del dipendente. In tale contesto, il comportamento datoriale è stato giudicato abusivo e in violazione del principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro. Di rilievo è l’affermazione secondo cui la pretesa del datore di far svolgere al lavoratore incarichi dequalificanti non possa essere imposta neanche in via temporanea o eccezionale, se non supportata da esigenze organizzative concrete, specificamente motivate. In mancanza di ciò, il rifiuto non costituisce insubordinazione, bensì una reazione difensiva legittima. La Corte, valorizzando il ruolo della professionalità acquisita e del rispetto della qualifica, ribadisce che l’assegnazione a mansioni inferiori non può essere usata come strumento punitivo o ritorsivo. Il licenziamento irrogato in tale contesto è quindi illegittimo, essendo stato adottato per un comportamento che rientra nel perimetro di autotutela del lavoratore. Questa decisione rafforza l’obbligo per il datore di agire nel rispetto dei diritti fondamentali del lavoratore e richiama l’importanza di evitare ogni forma di abuso di potere gerarchico.

Formazione reale salva l’apprendistato

Tribunale di Firenze sentenza n. 496 del 4.04.2025

In questa sentenza il Tribunale di Firenze affronta il delicato tema della validità del contratto di apprendistato professionalizzante, negando la domanda di un lavoratore che ne contestava la legittimità per difetto di formazione. Il ricorrente sosteneva di aver svolto attività di manutenzione in autonomia, senza aver ricevuto la formazione teorico-pratica prevista dalla legge, lamentando la nullità del contratto e chiedendo il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dall’inizio. Tuttavia, il giudice, sulla base della copiosa documentazione prodotta dalla parte resistente, ha escluso l’assenza della formazione. In particolare, sono stati valutati positivamente i registri firmati dal lavoratore, gli attestati di partecipazione a corsi, le comunicazioni con enti formativi, oltre a verbali di incontri e dichiarazioni testimoniali confermative della presenza di attività formative effettive. La sentenza valorizza la giurisprudenza di legittimità secondo cui l’inadempimento agli obblighi formativi può portare alla conversione del contratto di apprendistato in rapporto ordinario solo quando esso sia grave e non marginale. Qui il Tribunale ha ritenuto che le prove fossero sufficienti a dimostrare l’adempimento, almeno essenziale, dell’obbligo formativo, sia interno che esterno, e ha evidenziato la possibilità per l’azienda di esercitare una discrezionalità organizzativa nella modalità di erogazione della formazione, purché non escluda completamente la componente teorica o pratica.

La prescrizione del TFR decorre dalla cessazione

Corte di Cassazione civile ordinanza n. 10864 del 4.04.2025

In questa ordinanza la Corte di Cassazione si pronuncia sulla decorrenza del termine prescrizionale del TFR. Il lavoratore aveva proposto l’azione per ottenere il pagamento del trattamento di fine rapporto maturato, ma il datore di lavoro aveva eccepito l’intervenuta prescrizione quinquennale, sostenendo che essa fosse iniziata durante il rapporto di lavoro, in costanza di inadempimento. La Suprema Corte respinge con chiarezza questa impostazione, riaffermando che la prescrizione del TFR decorre solo dalla cessazione del rapporto e non da momenti precedenti, anche se caratterizzati da inadempienze o difficoltà economiche dell’azienda. Secondo i giudici di legittimità, in caso di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, il diritto al TFR è un credito non esigibile durante lo svolgimento del rapporto, e pertanto non può prescriversi prima della cessazione. Ciò vale anche nei casi in cui l’azienda versi in stato di insolvenza o difficoltà: finché il rapporto prosegue, anche se in maniera irregolare, il lavoratore è tenuto a non compromettere la continuità occupazionale e quindi non può essere onerato di atti di tutela che implichino un’azione giudiziaria anticipata. La Corte evidenzia che tale impostazione è coerente con l’orientamento consolidato secondo cui la prescrizione non può iniziare a decorrere quando il lavoratore si trovi in una condizione di subordinazione che possa limitarne la libertà di agire. Solo con la cessazione effettiva del rapporto si verifica la condizione di piena disponibilità del credito, e solo da quel momento può iniziare a decorrere il termine di prescrizione. L’ordinanza richiama precedenti conformi, ribadendo che qualsiasi interpretazione diversa finirebbe per comprimere indebitamente i diritti del lavoratore e introdurre un rischio di decadenza irragionevole per crediti che, per loro natura, maturano alla fine del rapporto.

Coerenza dell’anticipazione TFR: no al versamento mensile

Corte di Cassazione civile sentenza n. 13525 del 20.05.2025

In questa sentenza, la Corte di Cassazione riafferma con chiarezza che l’anticipazione del trattamento di fine rapporto non può trasformarsi in una prassi mensile, perché ciò snatura la sua funzione originaria di tutela differita. I giudici osservano che la normativa dell’art.2120 c.c. stabilisce condizioni ben precise: la presenza di causali specifiche, una sola erogazione (una tantum), limiti quantitativi (70%) e soglie di anzianità (almeno 8anni), nonché tetti di percentuale sui dipendenti beneficiari. Il caso esaminato riguardava un accordo aziendale che aveva introdotto una sorta di “TFR in busta paga”, ma privo di qualsiasi giustificazione causale e ripetuto in modo continuativo, in violazione della ratio normativa. La Cassazione, accogliendo il ricorso dell’INPS, ha dunque annullato la pronuncia della Corte d’Appello che aveva ammesso la pratica in forza del principio di miglior favore e dell’autonomia negoziale tra le parti. La suprema Corte precisa che l’ultima frase dell’art. 2120, che consente condizioni più vantaggiose, non autorizza a stravolgere la natura giuridica del TFR, trasformandolo in una componente ordinarie della retribuzione. Anzi, l’intervento dell’Ispettorato del Lavoro (Nota INL n. 616/2025) ha richiamato le aziende a cessare queste prassi, qualificandole come potenzialmente illegittime e sanzionabili. Cassazione aggiunge che le somme erogate mensilmente, prive di presupposti legali, acquistano natura retributiva e quindi sono soggette a contribuzione previdenziale, con possibile attivazione di regolarizzazioni retroattive. L’effetto più significativo di questa pronuncia riguarda le implicazioni pratiche: le imprese devono interrompere immediatamente la corresponsione mensile del TFR e procedere a rivalutazioni contributive, pena sanzioni da parte di INPS o ispettorato. Allo stesso tempo, i consulenti del lavoro devono vigilare affinché i contratti individuali non contengano clausole che possano generare applicazioni analoghe. Questo orientamento rafforza l’inquadramento del TFR come accantonamento differito, una tutela passiva per il lavoratore alla cessazione del rapporto, e non strumento negoziale flessibile per aumenti retributivi.

Carta Docente anche ai precari annuali

Corte di Cassazione civile sentenza n. 29961 del 27.10.2023

In questa sentenza la Corte di Cassazione affronta la questione della disparità di trattamento tra docenti di ruolo e docenti a termine rispetto alla fruizione della Carta Docente, il beneficio economico pari a 500 euro annui destinato alla formazione continua del personale insegnante. Il nodo centrale riguarda la compatibilità della normativa italiana – che esclude i docenti precari dalla carta – con i principi europei di non discriminazione e di parità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e indeterminato, stabiliti dalla Direttiva 1999/70/CE. La Corte ribadisce che la formazione è un diritto-dovere riconosciuto a tutto il personale docente, senza distinzione di status contrattuale. In particolare, valorizza l’inquadramento della Carta Docente come misura volta a supportare la didattica annua, sottolineando come anche i docenti precari impegnati in supplenze annuali o fino al termine delle attività didattiche svolgano attività comparabili a quella dei colleghi di ruolo. L’esclusione di questi lavoratori dalla fruizione del beneficio risulta, pertanto, ingiustificata e contraria al diritto eurounitario. La Corte accoglie la prospettiva delineata dalla Corte di Giustizia dell’UE nel 2022, secondo cui la Carta Docente rientra tra le condizioni di impiego, e come tale non può essere attribuita solo ai lavoratori stabili. È dunque necessario che il legislatore interno, pur nel legittimo esercizio della sua discrezionalità, non introduca criteri discriminatori che colpiscano chi svolge un lavoro identico o assimilabile in termini di durata e contenuto. Non tutte le supplenze, però, sono assimilabili: la Corte distingue chiaramente le supplenze brevi o frammentarie da quelle annuali, evidenziando che solo queste ultime possono dirsi pienamente comparabili con le prestazioni dei docenti di ruolo. In tal senso, viene tracciato un criterio oggettivo, legato al concetto di “didattica annua”, utile a identificare il perimetro applicativo del beneficio. La natura della Carta Docente viene inoltre definita come obbligazione pecuniaria a carico del datore di lavoro pubblico, ma non retributiva, coerente con la sua funzione formativa. Di conseguenza, il diritto a riceverla, una volta riconosciuto, è soggetto a prescrizione quinquennale, con decorrenza dalla disponibilità della somma per ciascun anno scolastico.

Riconoscimento dell’indennità sostitutiva al dirigente licenziato senza preavviso

Corte di Cassazione civile sentenza n. 27713 del 02.10.2023

In questa ordinanza la Corte di Cassazione si pronuncia sull’indennità sostitutiva del preavviso per dirigente licenziato, a prescindere dalla giustificatezza del recesso datoriale. Il caso trae origine da un licenziamento intimato senza preavviso ad un dirigente, ritenuto legittimo dalla Corte d’Appello. Tuttavia, il giudice di legittimità ribalta l’esito valorizzando il principio per cui, anche nei confronti della dirigenza, il preavviso rappresenta una componente autonoma del rapporto di lavoro e la sua omissione impone al datore l’obbligo di corrispondere l’indennità sostitutiva, salvo ipotesi di giusta causa. Viene riaffermato che l’art. 2118 c.c., applicabile anche al lavoro dirigenziale, prevede che il recesso unilaterale debba essere esercitato nel rispetto di un termine di preavviso, e che la sua inosservanza comporta il diritto al relativo indennizzo. La giurisprudenza di legittimità ha costantemente confermato che solo l’accertamento di condotte gravemente lesive, tali da impedire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto, può giustificare l’assenza di preavviso. In assenza di tale accertamento, il datore non può esimersi dal risarcimento. La Corte censura il ragionamento del giudice di merito che aveva ritenuto “giustificato” il licenziamento per motivi organizzativi, escludendo quindi il diritto all’indennità. L’ordinanza chiarisce invece che la giustificatezza del recesso non è condizione sufficiente per negare l’indennità di preavviso. La distinzione tra giusta causa e giustificatezza assume qui un ruolo decisivo: la prima, unica a consentire l’esonero dall’indennizzo, implica una condotta colpevole e grave del dirigente; la seconda, invece, può fondarsi su motivi economici o organizzativi, che non eliminano l’obbligo del preavviso. Di particolare rilievo è il richiamo ai principi generali del contratto di lavoro, in cui il preavviso non assume una funzione sanzionatoria, bensì di tutela del lavoratore, consentendogli un tempo congruo per organizzare la propria uscita dal mercato del lavoro. L’omissione unilaterale di tale periodo, senza corrispettivo economico, altera l’equilibrio contrattuale e viola gli obblighi di buona fede e correttezza.

Sciopero spontaneo e licenziamento nullo: la Cassazione chiarisce

Corte di Cassazione civile sentenza n. 11347 del 30.04.2025

In questa sentenza la Corte di Cassazione conferma la nullità del licenziamento intimato ad un lavoratore per la partecipazione ad uno sciopero spontaneo di breve durata. I giudici di merito, le cui conclusioni sono state pienamente condivise anche dalla Suprema Corte, avevano accertato che il dipendente si era astenuto dall’attività lavorativa per meno di un’ora insieme ad altri due colleghi, senza causare danni, disservizi o pregiudizi all’azienda o alla committente. La Corte ha respinto tutte le doglianze del datore di lavoro, ribadendo che il diritto di sciopero, ai sensi dell’art. 40 Cost., può essere esercitato anche autonomamente dai lavoratori, senza necessità di proclamazione da parte di un sindacato e senza obbligo di preavviso, purché sia collettivo e persegua interessi comuni e non meramente individuali. Inoltre, è stato precisato che, salvo il superamento dei cosiddetti limiti esterni (violenza, pericolo per la sicurezza, lesioni irreparabili all’impresa), non rilevano le modalità formali di indizione né la legittimità secondo i codici di autoregolamentazione contrattuale, soprattutto quando l’attività aziendale non rientra nei servizi pubblici essenziali. La Cassazione ha anche chiarito che la partecipazione ad uno sciopero, anche se ritenuto illegittimo dal datore di lavoro, non può mai costituire giusta causa di licenziamento e che in tali ipotesi trova applicazione l’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, che sancisce la nullità dell’atto espulsivo. Il lavoratore ha quindi diritto alla reintegrazione e al risarcimento integrale del danno.

Formazione assente, datore responsabile

Corte di cassazione penale sentenza n. 15697 del 22.04.2025

In questa sentenza la Corte di Cassazione conferma la condanna penale del datore di lavoro per lesioni colpose a un dipendente, vittima di un grave infortunio sul cantiere. L’operaio era intento a scaricare materiale edile da un furgone, quando un tubo in cemento di oltre 40 kg gli è caduto sulla mano, provocando fratture complesse e una prognosi di 140 giorni. La responsabilità è stata attribuita al datore di lavoro, formalmente legale rappresentante della società, per omessa formazione e informazione in materia di sicurezza. La Corte ha ribadito che, anche se il titolare si dichiara “prestanome”, la posizione di garanzia derivante dalla carica permane, salvo delega formalizzata e funzionale ad altro soggetto. Il ricorrente ha cercato di sostenere che l’evento fosse imprevedibile, ma la Suprema Corte ha osservato che è del tutto prevedibile che carichi non correttamente movimentati possano cadere, e che proprio per questo il datore ha l’obbligo di istruire adeguatamente i lavoratori. Il richiamo normativo al D.Lgs. 81/2008 è centrale, poiché la formazione è definita come trasferimento di conoscenze e procedure per prevenire e gestire i rischi specifici del lavoro. La mancata adozione di queste misure costituisce colpa grave, causalmente collegata all’infortunio. La Corte ha respinto anche la richiesta di esclusione della punibilità per tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), rilevando che l’imputato aveva precedenti penalis pecifici e che la durata della malattia smentiva la presunta lievità dell’offesa. Analoga sorte ha avuto la doglianza sulla pena, ritenuta adeguatamente motivata per la scelta della reclusione e il diniego delle attenuanti generiche.

Radiazione automatica e condanna penale: la Cassazione chiarisce

Corte di Cassazione civile ordinanza n. 12027 del 7.05.2025

In questa ordinanza la Corte di Cassazione ribalta la decisione della Corte d’Appello di Potenza che aveva annullato la radiazione di un vigile del fuoco volontario a seguito di una condanna per violenza sessuale di gruppo. L’uomo, condannato con patteggiamento nel 2002 e iscritto negli elenchi del personale volontario dal medesimo anno, era stato oggetto di provvedimento espulsivo solo nel 2015, allorché l’Amministrazione aveva acquisito notizia della condanna. La Corte d’Appello aveva escluso la legittimità della cancellazione, valorizzando il tempo trascorso e la giovane età del condannato, oltre a ritenere applicabili criteri di proporzionalità e valutazione concreta del fatto. La Cassazione, invece, sottolinea che per i vigili volontari non si applica la disciplina del pubblico impiego, ma una normativa speciale, che configura un rapporto di servizio funzionale, subordinato al possesso di requisiti morali e di condotta particolarmente stringenti. Il D.P.R. n. 76/2004 e la legge n. 521/1988 prevedono la radiazione automatica in caso di condanna per delitto doloso, senza necessità di attivare un procedimento disciplinare. In questo contesto, la funzione svolta dai volontari – anche con poteri di polizia giudiziaria – giustifica un automatismo espulsivo che non è una sanzione punitiva ma una decadenza per sopravvenuta perdita di un requisito essenziale. La Corte afferma che non vi è spazio per valutazioni discrezionali sul “disvalore” del reato o sull’eventuale riabilitazione, la quale richiede ben altre condizioni rispetto alla semplice estinzione del reato. Inoltre, richiama l’equiparazione, ai fini amministrativi, tra sentenza di patteggiamento e condanna definitiva, rendendo irrilevante che la pena sia stata sospesa o che i fatti siano remoti nel tempo.

Dignità lesa: datore responsabile

Corte di Cassazione civile ordinanza n. 12504 del 12.05.2025

In questa ordinanza la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di un datore di lavoro per non aver adottato misure idonee a garantire la dignità del lavoratore, in violazione dell’art. 2087 c.c.. Il caso riguarda un dipendente che, durante il turno, non ha potuto recarsi in bagno per mancanza di sostituzione da parte del Team Leader, nonostante ripetute richieste tramite il sistema di chiamata. Costretto a resistere fino al limite fisico, il lavoratore si è urinato addosso, riprendendo poi immediatamente il lavoro, ma senza ottenere il permesso di cambiarsi in infermeria. Ha potuto farlo solo durante la pausa, nel box UTE, davanti ad altri colleghi, comprese donne, in condizioni umilianti. La Cassazione ha riconosciuto la responsabilità datoriale per non aver previsto un’organizzazione che consentisse di gestire esigenze fisiologiche imprevedibili senza ledere la persona. L’evento, pur se sgradevole, non è stato considerato eccezionale o tale da escludere una responsabilità. Al contrario, la Corte ha sottolineato che l’assenza di un protocollo per sostituzioni rapide dimostra un difetto di diligenza organizzativa. Inoltre, la Corte ha affermato che la lesione non riguarda solo l’aspetto intimo del lavoratore, ma investe anche il suo prestigio professionale, minato dall’esposizione pubblica dell’accaduto. Non è stato ritenuto rilevante che il lavoratore abbia atteso la pausa per cambiarsi: la mancata concessione immediata del permesso è stata giudicata sintomatica di una condotta aziendale lesiva. Il danno è stato liquidato in 5.000 euro, anche in assenza di una prova specifica sul quantum, ritenendosi sufficiente l’equità. La sentenza afferma il principio che la dignità sul luogo di lavoro non può essere compressa neppure di fronte a esigenze organizzative e ribadisce l’obbligo del datore di prevenire situazioni umilianti con strumenti adeguati. Si tratta di una pronuncia che rafforza la tutela della persona come valore cardine del rapporto di lavoro, e richiama i datori alla responsabilità anche nelle dinamiche operative più ordinarie.

Esposizione a PFAS e rendita agli eredi: Inail condannata

Tribunale di Vicenza sentenza n. 251 del 13.05.2025

In questa sentenza il Tribunale di Vicenza riconosce il diritto degli eredi di un lavoratore deceduto alla rendita ai superstiti, ritenendo provato il nesso di causalità tra la malattia professionale contratta dal de cuius e l’ambiente lavorativo contaminato da sostanze perfluoroalchiliche (PFAS). L’uomo aveva operato dal 1979 al 1992 nel reparto di depurazione di un’azienda chimica, ubicato accanto a quello in cui si producevano PFOA e PFOS. Sebbene il carcinoma uroteliale che lo ha condotto alla morte non sia incluso nelle malattie tabellate, il giudice ha ritenuto che la prova scientifica e testimoniale offerta dimostrasse con elevata probabilità che la patologia fosse riconducibile all’esposizione professionale. Fondamentale è stata la consulenza tecnica d’ufficio, che ha confermato la persistenza dei PFAS nell’organismo umano, l’inalazione indiretta delle sostanze anche da reparti attigui e l’insufficienza delle protezioni individuali fornite. La sentenza sottolinea che anche l’assenza di un contatto diretto o l’assenza di analisi ematiche individuali non esclude la responsabilità, ove siano presenti evidenze epidemiologiche, fonti attendibili e testimonianze coerenti. L’Inail ha contestato l’esistenza del nesso, ma il tribunale ha ritenuto le osservazioni difensive non idonee a superare la ricostruzione peritale, fondata su dati sanitari, scientifici e ambientali. Il giudice ha così riconosciuto la prestazione di cui all’art. 85 del D.P.R. n. 1124/1965, condannando l’Istituto alla costituzione della rendita, oltre interessi e rivalutazione monetaria, nonché al pagamento delle spese legali e di consulenza. La prova del nesso causale può basarsi su criteri di elevata probabilità logica e scientifica, in coerenza con l’approccio probabilistico ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità.

Niente rimborso se manca il preavviso

Corte di Cassazione civile ordinanza n. 15279 del 9.06.2025

In questa ordinanza la Corte di Cassazione ribadisce che il dipendente pubblico, anche se assolto da ogni responsabilità in un procedimento penale legato all’attività d’ufficio, non ha diritto al rimborso delle spese legali sostenute se ha nominato autonomamente un difensore di fiducia, senza averlo preventivamente comunicato all’amministrazione. Il ricorrente, dirigente economico-finanziario presso un Comune siciliano, aveva invocato l’applicazione della legge regionale siciliana n. 145/1980 e della l.r. n. 30/2000, che assicurano l’assistenza legale al personale che, per atti compiuti in servizio, sia stato sottoposto a procedimento e poi dichiarato esente da responsabilità. Tuttavia, la Corte chiarisce che, anche nel contesto normativo regionale, si impone il rispetto di condizioni procedurali essenziali, analoghe a quelle previste dall’art. 28 del CCNL del 14.9.2000. In particolare, l’amministrazione deve essere messa nella condizione di valutare ex ante l’assenza di un conflitto di interessi e di indicare un legale di comune gradimento. Se il lavoratore omette questa comunicazione e procede autonomamente alla nomina, l’ente non è tenuto a rimborsare le spese, anche in caso di successiva archiviazione o assoluzione. La Suprema Corte sottolinea che la previsione del rimborso non costituisce un diritto assoluto, ma è subordinata alla trasparenza e cooperazione preventiva tra dipendente e amministrazione, perché la difesa del lavoratore può coinvolgere interessi pubblici dell’ente. Non è dunque sufficiente l’assenza di colpa né l’avvenuta chiusura positiva del procedimento penale.

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