Pubblicato il: 23 Maggio 2025

Nella newsletter di maggio potrai trovare alcune sentenze in materia di diritto del lavoro.

Il Focus di questo mese è: Fumo in area vietata: la tolleranza non giustifica

Buona lettura della newsletter!

Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione interviene su un caso di licenziamento per giusta causa comminato a un dipendente per aver fumato nella zona air-side dell’aeroporto, area soggetta a restrizioni di sicurezza. La Corte d’Appello di Milano, confermando il primo grado, aveva ritenuto il licenziamento illegittimo, basando la decisione sull’accertata tolleranza aziendale verso la prassi di fumare in quell’area, pur in presenza di un divieto formale. Secondo i giudici milanesi, l’assenza di cartelli, la consuetudine condivisa anche dai superiori e la mancata azione disciplinare del datore rendevano il comportamento non sanzionabile. La Cassazione, accogliendo il ricorso della società, ribalta il ragionamento, sottolineando che la tolleranza datoriale verso comportamenti illeciti non elimina automaticamente la natura antigiuridica della condotta. La violazione di un divieto normativo, soprattutto se legato alla sicurezza e salute, non può essere neutralizzata da prassi informalmente accettate. Affinché la condotta non sia imputabile, è necessario che il lavoratore versi in buona fede, cioè che abbia avuto un legittimo affidamento sulla liceità del comportamento, basato su elementi oggettivi e non imputabili a negligenza. Nel caso concreto, il lavoratore era consapevole del divieto, formato su di esso e informato dal regolamento aziendale. La Cassazione critica la Corte territoriale per non aver verificato se sussistesse un errore incolpevole, elemento essenziale per escludere la responsabilità disciplinare. La mancata affissione del divieto e la prassi tollerata non sono sufficienti a esonerare da responsabilità chi conosce comunque la regola. L’ordinanza chiarisce che anche nel diritto del lavoro, come nella responsabilità amministrativa, la buona fede rileva solo se non evitabile e supportata da un comportamento diligente. La decisione si pone quindi come un monito: la gestione aziendale non può autorizzare implicitamente condotte contrarie alla legge e il lavoratore non può invocare la tolleranza per giustificare violazioni consapevoli.

Licenziamento via WhatsApp è valido se documentato

Tribunale di Napoli sentenza n.1758 del 16.04.2025

La sentenza torna sull’argomento della validità del licenziamento comunicato via WhatsApp. I ricorrenti avevano impugnato il recesso sostenendo che era stato intimato oralmente, in violazione dell’art. 2, commi 1 e 3, della Legge n. 604/1966, che impone la forma scritta ad substantiam. Tuttavia, la società aveva trasmesso tramite messaggio WhatsApp il modello UniLav indicante chiaramente il giustificato motivo oggettivo e la data del licenziamento.Il giudice ha stabilito che, se la comunicazione contiene i requisiti essenziali (identità delle parti, indicazione del rapporto, motivazione e decorrenza), essa soddisfa la richiesta di forma scritta, purché venga effettivamente portata a conoscenza del lavoratore. Nel caso di specie, la trasmissione è risultata pacifica, e i lavoratori hanno reagito con impugnazione, segno che la comunicazione è giunta a destinazione.La sentenza sottolinea che, secondo una giurisprudenza costante, la forma scritta del licenziamento può essere assolta anche tramite strumenti informatici, se idonei a dimostrare l’intento del datore e la ricezione da parte del lavoratore. L’invio del certificato UniLav tramite WhatsApp, dunque, costituisce una modalità valida, essendo equivalente a una comunicazione scritta indiretta, a patto che sia documentabile e completa.Inoltre, il giudice ha evidenziato che i ricorrenti non hanno contestato la motivazione del licenziamento o l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo nei loro ricorsi, limitandosi alla questione formale. Per tale ragione, ogni ulteriore eccezione tardivamente introdotta è stata dichiarata inammissibile.La decisione si inserisce nel filone interpretativo che riconosce la flessibilità della forma scritta nell’era digitale, purché tuteli con chiarezza i diritti delle parti coinvolte.

Licenziamento per insubordinazione e salario costituzionale: i limiti della Cassazione

Corte di Cassazione sentenza n. 27713 del 02.10.2023

La Corte di Cassazione il tema del licenziamento disciplinare e retribuzione conforme all’art. 36 Cost. Il ricorrente, dipendente part-time era stato licenziato per insubordinazione a seguito di alcuni messaggi audio via WhatsApp ritenuti offensivi verso il datore. La Corte d’Appello di Torino aveva ribaltato il primo grado, giudicando legittimo il licenziamento e congrua la retribuzione percepita in virtù del CCNL Servizi Fiduciari, nonostante le evidenti criticità. La Cassazione riconosce invece gravi vizi logico-giuridici nella decisione d’appello. Sotto il profilo disciplinare, si evidenzia che la valutazione non ha considerato il contesto ritorsivo e discriminatorio in cui si è sviluppata la reazione del lavoratore, né ha tenuto conto della provocazione datoriale come possibile scriminante o attenuante. È stato altresì ribadito che, per configurare l’insubordinazione, non è sufficiente un’offesa verbale fuori dall’orario di lavoro, ma serve una condotta che pregiudichi l’organizzazione aziendale. In merito al trattamento economico, la Suprema Corte sottolinea che il giudice non può sottrarsi alla verifica autonoma della conformità ai criteri di proporzionalità e sufficienza della retribuzione, pur quando essa sia conforme ad un contratto collettivo firmato da sindacati rappresentativi. La sentenza è importante perché riafferma il principio per cui il salario minimo costituzionale è un diritto inderogabile e che la verifica giudiziale può estendersi anche a contratti collettivi, quando non assicurano una vita libera e dignitosa, richiamando la Direttiva UE 2022/2041. È altresì chiarito che il confronto con l’indice ISTAT di povertà assoluta non può da solo esaurire la valutazione di conformità all’art. 36 Cost., e che il giudice deve motivare adeguatamente la scelta dei parametri applicati. Infine, si evidenzia come il ricorso del lavoratore sia stato fondato, poiché la Corte territoriale ha omesso di rispettare un giudicato interno relativo a differenze retributive già accertate in primo grado. Con tale decisione, la Cassazione ribadisce un approccio sostanzialista al diritto del lavoro, in cui la tutela del lavoratore non può essere compressa da formalismi processuali o da presunte intangibilità contrattuali, a tutela della centralità della persona nel rapporto di lavoro.

Limiti ai contratti a termine nel settore artistico pubblico

Cassazione civile ordinanza n. 3470 del 11.02.2025

La sentenza affronta il tema dell’abuso di contratti a termine nel settore dello spettacolo pubblico. La causa riguardava una musicista del Teatro di Messina, assunta con plurimi contratti a tempo determinato per circa quindici anni, che contestava l’illegittimità della reiterazione e chiedeva la conversione del rapporto o il risarcimento del danno. La Corte d’Appello di Messina aveva rigettato la domanda, ritenendo che non si fossero superati i 36 mesi di durata massima dei contratti a termine previsti dall’art. 5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001, in quanto dovevano escludersi alcuni periodi in base al regime transitorio introdotto dalla legge n. 247/2007 e per l’applicazione della previgente legge n. 230/1962. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha cassato la decisione, accogliendo il primo motivo di ricorso della lavoratrice e richiamando la necessità di considerare l’intero arco contrattuale, compreso quello anteriore al 2001, ai fini del computo del limite dei 36 mesi. La Corte ha precisato che il criterio rilevante non è la legittimità dei singoli contratti, ma la continuità e la durata complessiva del rapporto, da valutare in un’ottica di contrasto all’abuso sistemico dei contratti a termine. Ha ribadito che anche nel settore dello spettacolo pubblico non può ritenersi sufficiente, ai fini giustificativi, il solo carattere temporaneo delle attività artistiche: le ragioni obiettive devono essere concrete, specifiche e legate alla funzione svolta, non generiche. Con un’applicazione conforme alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, la Cassazione ha dunque riconosciuto la violazione dell’art. 5, comma 4-bis, condannando l’ente al risarcimento del danno in favore della lavoratrice, nella misura di sei mensilità della retribuzione. La pronuncia è significativa per la sua portata sistemica: mette in discussione la prassi diffusa di utilizzo reiterato di contratti a termine nei teatri pubblici e afferma il principio secondo cui anche il personale artistico, se impiegato con modalità seriali e durature, va tutelato contro l’abuso contrattuale. Inoltre, si chiarisce che i contratti stipulati anche sotto il vigore della legge n. 230/1962 e quelli intercorsi durante il regime transitorio della legge n. 247/2007 devono essere computati nel conteggio della durata complessiva, sebbene non determinino direttamente la conversione del rapporto per l’impossibilità giuridica in capo agli enti pubblici non economici. Tuttavia, ciò non esclude il diritto al risarcimento.

Straordinario nella P.A.: serve il consenso, non sempre l’autorizzazione

Cassazione civile ordinanza n. 4984 del 26.02.2025

La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema del lavoro straordinario nel pubblico impiego contrattualizzato, con un focus sull’obbligo di autorizzazione e sulla prova del diritto alla retribuzione. Il caso riguardava un operaio specializzato che aveva chiesto il pagamento degli straordinari prestati tra il 2015 e il 2020, oltre a ulteriori somme per disagi legati alla mancanza di servizi. In primo grado, il Tribunale aveva riconosciuto solo una parte del credito per lavoro straordinario. In appello, entrambe le parti avevano proposto impugnazione, ma la Corte d’Appello di Bari aveva rigettato integralmente La Corte di Cassazione ha chiarito un principio rilevante: nel pubblico impiego contrattualizzato, l’autorizzazione preventiva al lavoro straordinario è certamente necessaria, ma può essere surrogata dal consenso anche implicito del datore di lavoro, purché la prestazione sia coerente con la sua volontà. Ciò trova fondamento negli artt. 36 Cost. e 2126 c.c., che impongono il rispetto del principio di giusta retribuzione, anche a fronte di irregolarità formali o limiti di spesa pubblica. Il tema dell’autorizzazione non può considerarsi “nuovo” se oggetto di contestazione già in primo grado. Infatti, secondo la Corte, se la P.A. ha sempre negato il diritto allo straordinario, può legittimamente eccepire in appello l’assenza di autorizzazione come fatto costitutivo mancante. È escluso che ciò configuri domanda nuova, in quanto si tratta di una semplice contestazione della pretesa altrui. La Corte ha poi precisato che la prova del lavoro straordinario può essere fornita anche per testi, non essendo obbligatorio il riscontro tramite sistemi automatici di rilevazione delle presenze, in mancanza della loro adozione. L’eventuale inadempimento rispetto a tali strumenti, previsto dall’art. 3, comma 83, L. 244/2007, non può pregiudicare il diritto del lavoratore alla retribuzione, ma semmai determinare responsabilità amministrativa per il dirigente pubblico. Con questa pronuncia, la Cassazione ribadisce l’approccio garantista verso il lavoratore pubblico in materia di compensi straordinari, ma nel contempo riafferma la necessità di verificare il consenso datoriale effettivo, unico elemento abilitante la corresponsione del compenso, anche in assenza di formale autorizzazione.

Estorsione sul posto di lavoro: è reato costringere un dipendente a fare da prestanome

Cassazione penale sentenza n. 7456 del 24.02.2025

La sentenza affronta la strumentalizzazione del lavoratore in una posizione societaria fittizia sotto minaccia di licenziamento. Il caso riguarda un operaio, costretto ad assumere e mantenere la carica di amministratore di una società a lui formalmente intestata, ma di fatto gestita da altri, con l’unico scopo di scaricare su di lui le responsabilità amministrative e patrimoniali connesse al fallimento della stessa. L’imputato, riconosciuto come dominus occulto della società, aveva prospettato all’operaio – soggetto economicamente fragile – l’alternativa tra accettare tale carica o perdere il proprio posto. Nonostante il formale ruolo di amministratore assunto dalla vittima, la Corte ha ritenuto che vi fosse una coartazione della volontà, e che l’atto fosse frutto di una minaccia indiretta ma reale. La Corte ha chiarito che anche l’apparente possibilità di scegliere da parte della vittima non elimina la natura estorsiva del comportamento, poiché è proprio tipico di questo reato richiedere la cooperazione forzata della vittima. La difesa dell’imputato ha cercato di escludere la responsabilità, invocando l’assenza di un effettivo profitto o danno, la mancata formale titolarità dell’azienda da parte dell’imputato, e la presunta libertà d’azione del lavoratore. Tuttavia, la Suprema Corte ha respinto questi argomenti, sottolineando che il profitto illecito consiste nel liberarsi delle responsabilità gestionali facendo figurare la parte offesa come amministratore, e che il danno deriva dalla sua esposizione legale e patrimoniale. La permanenza nel posto di lavoro, peraltro, non attenua il reato, bensì rafforza l’efficacia della minaccia.

Molestie sul lavoro: giusta causa e licenziamento legittimo

Cassazione civile ordinanza n. 6345 del 10.03.2025

La Corte di Cassazione conferma la legittimità del licenziamento disciplinare per giusta causa di un dipendente accusato di molestie a sfondo sessuale e minacce sul luogo di lavoro. L’interessato aveva impugnato il licenziamento negando la gravità dei fatti, ma la Corte ha ribadito che il comportamento tenuto è oggettivamente disonorevole e lesivo della dignità altrui, a prescindere dall’intenzione soggettiva del lavoratore. Il lavoratore era stato licenziato per comportamenti molesti e frasi offensive rivolte a una collega, nonché per una minaccia nei confronti di un dirigente incaricato di vigilare sul rispetto del codice etico aziendale. Le sue difese sono state ritenute infondate, sia in relazione alla valutazione dei fatti, sia per quanto concerne la proporzionalità della sanzione. La Cassazione ha confermato l’impostazione della Corte d’Appello, che aveva fatto corretta applicazione del principio secondo cui la giusta causa va valutata in base a una scala valoriale conforme ai principi costituzionali e al sentire sociale attuale, in particolare con riferimento alla tutela contro le discriminazioni e le molestie sul lavoro. È stato ribadito che non rileva la soggettiva intenzione molesta, ma la percezione della vittima e il contenuto oggettivo della condotta, in linea con le direttive europee e la normativa nazionale in materia di parità e dignità lavorativa. La recidiva, la presenza di altri colleghi al momento dei fatti e il luogo stesso in cui sono avvenuti gli episodi – l’ambiente di lavoro – hanno aggravato la posizione del ricorrente. Inoltre, il lavoratore è stato condannato a restituire le somme percepite in esecuzione della sentenza d’appello poi cassata. Questa ordinanza rappresenta un forte segnale a tutela dell’ambiente lavorativo sano e rispettoso, e ribadisce che i comportamenti molesti, anche se verbali e apparentemente “banali”, possono integrare violazioni gravi che giustificano il recesso immediato.

Licenziamento ritorsivo: reintegra e buona fede del lavoratore

Cassazione civile ordinanza n. 6966 del 16.03.2025

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Bologna che ha dichiarato nullo per ritorsione il licenziamento intimato dalla società a una guardia giurata. Il lavoratore, licenziato per asserita insubordinazione e abbandono del posto, aveva rifiutato di utilizzare un’autovettura inadeguata per le sue condizioni fisiche, rimanendo comunque a disposizione dell’azienda e mantenendo una condotta professionale. Secondo i giudici, la prova raccolta in giudizio dimostrava la natura ritorsiva del recesso, evidenziata anche da una pluralità di contestazioni disciplinari, per lo più abbandonate, poste in essere in un breve lasso temporale. La Corte ha ribadito che il lavoratore può legittimamente opporre l’exceptio inadimplenti non est adimplendum, ovvero rifiutare la prestazione se il datore è inadempiente, purché ciò avvenga in buona fede e in maniera proporzionata. Tale valutazione rientra nella discrezionalità del giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata. Anche la pretesa insubordinazione è stata esclusa in fatto, non essendo emersi elementi sufficienti a dimostrarla, e il comportamento del lavoratore è stato ritenuto coerente con i doveri contrattuali. Quanto alla richiesta di reintegra, inizialmente accolta, è emerso che il lavoratore aveva in realtà optato per l’indennità sostitutiva, e il dispositivo è stato poi rettificato. La decisione rappresenta un ulteriore consolidamento della giurisprudenza in tema di licenziamenti ritorsivi, ponendo l’accento sulla rilevanza della prova presuntiva, sulla tutela della dignità del lavoratore e sulla corretta applicazione del principio di buona fede contrattuale, anche nella fase patologica del rapporto di lavoro. Inoltre, evidenzia come l’analisi della proporzionalità degli inadempimenti reciproci sia centrale per stabilire la legittimità delle condotte delle parti nel rapporto sinallagmatico.

Validità della PEC dell’avvocato per il licenziamento

Cassazione civile sentenza n. 7480 del 20.03.2025

La sentenza affronta una questione di forma e validità della comunicazione del licenziamento nel pubblico impiego, stabilendo un principio di rilievo per la notifica del recesso disciplinare tramite PEC al difensore del lavoratore. Il ricorrente aveva impugnato il licenziamento sostenendo la nullità dello stesso per mancata comunicazione personale, lamentando che la notifica via PEC all’avvocato fosse inidonea, non essendo prevista dalla normativa vigente all’epoca dei fatti. Tuttavia, la Corte ha rigettato il ricorso in quanto inammissibile, affermando che la comunicazione all’indirizzo PEC dell’avvocato, presso il quale il lavoratore aveva eletto domicilio digitale nel procedimento disciplinare, è da considerarsi valida. Il giudice di merito ha accertato in fatto che il lavoratore era consapevole del provvedimento e che l’indicazione della PEC del difensore, contenuta nella delega, configurava una forma di disponibilità qualificata del canale di comunicazione. Pertanto, non si configura un vizio procedurale tale da invalidare il licenziamento. La Corte ha inoltre escluso la violazione dell’art. 55-bis del D.Lgs. 165/2001, ribadendo che la normativa vigente ratione temporis consentiva comunicazioni anche via PEC al difensore, riconoscendo il domicilio digitale dell’avvocato quale indirizzo ufficiale, legittimo e sufficiente. L’interpretazione sistematica del quadro normativo, anche alla luce delle riforme sul processo telematico e del ruolo dell’INI-PEC, consolida l’idoneità della notifica effettuata in tal modo. In definitiva, viene confermata la piena legittimità dell’utilizzo della PEC del difensore per l’efficacia del licenziamento, laddove il lavoratore l’abbia indicata esplicitamente come domicilio processuale.

Reperibilità notturna è orario di lavoro

Cassazione civile ordinanza n. 10648 del 23.04.2025

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha accolto il ricorso di un lavoratore di una cooperativa sociale, ritenendo fondate le doglianze circa la mancata retribuzione del tempo trascorso in reperibilità notturna con obbligo di presenza fisica presso la struttura. La Corte ha censurato l’interpretazione troppo restrittiva fornita dalla Corte d’Appello di Palermo, la quale aveva ricondotto la fattispecie all’art. 57 del CCNL Cooperative sociali, che prevede un’indennità fissa mensile di € 77,47 per la reperibilità, escludendo tali ore dal computo dell’orario di lavoro. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ribadita anche in questa pronuncia, quando la reperibilità comporta la permanenza sul luogo di lavoro, anche in assenza di interventi attivi, essa va qualificata come orario di lavoro ai sensi della direttiva 2003/88/CE. Tale tempo non è tempo libero e incide in maniera significativa sulla libertà del lavoratore, il quale resta a disposizione del datore di lavoro, lontano dal proprio ambiente personale e familiare. Di conseguenza, la retribuzione di queste ore deve essere adeguata, proporzionata e dignitosa, come stabilito dall’art. 36 della Costituzione Italiana. La Cassazione ha dunque cassato con rinvio la sentenza d’appello, invitando il giudice del riesame a valutare se l’indennità prevista dal CCNL sia effettivamente congrua e rispettosa dei parametri di proporzionalità e sufficienza, e ad applicare eventualmente in via correttiva le direttive comunitarie e i principi costituzionali.

Trasferimento interno non è discriminazione

Tribunale di Milano sentenza n. 581 del 10.02.2025

Il Tribunale del Lavoro di Milano ha respinto il ricorso di una dipendente che lamentava un trasferimento interno come discriminatorioritorsivo e demansionante, a seguito di una precedente causa intentata contro il datore di lavoro. La lavoratrice, portatrice di handicap e caregiver della madre disabile residente a Napoli, era stata spostata da un ufficio a un altro all’interno della stessa sede milanese. Secondo la ricorrente, tale cambiamento le avrebbe fatto perdere la possibilità di appoggiarsi alla doppia sede operativa Milano-Napoli, limitando la sua funzione di assistenza e costituendo ritorsione per il contenzioso in corso. Il Tribunale ha chiarito che l’assegnazione a un altro ufficio nel medesimo Comune non costituisce un trasferimento ai sensi dell’art. 33, comma 5, L. 104/1992, in quanto non incide sul diritto di assistere un familiare in altra città. La tutela prevista dalla legge è finalizzata ad evitare lo spostamento del lavoratore lontano dalla persona assistita, ma nel caso concreto la sede lavorativa è rimasta nella stessa area urbana. Inoltre, la scelta aziendale è stata considerata giustificata da esigenze organizzative legate a un conflitto ambientale tra la lavoratrice e i suoi superiori, su cui lei stessa aveva sollevato gravi accuse in giudizio. La nuova collocazione risulta compatibile con il percorso professionale e collocata in prossimità della precedente. Il Tribunale ha anche escluso la natura demansionante delle nuove mansioni, che anzi offrono spazi di crescita e formazione in ambito finanziario. Il colloquio registrato dalla dipendente non ha evidenziato atteggiamenti ostili da parte del datore, né finalità ritorsive. Il Tribunale ha sottolineato che l’azienda ha agito nel rispetto dell’art. 2087 c.c., ossia nella tutela della salute e dignit àdella lavoratrice e dell’ambiente di lavoro, cercando una soluzione bilanciata tra le esigenze di entrambe le parti. La possibilità per la ricorrente di accedere agli hub aziendali di Napoli, anche se su prenotazione, non è stata ritenuta discriminatoria ma frutto di un’organizzazione flessibile.

Ferie negate e comporto: nessuna automatica conversione

Cassazione civile ordinanza n. 9831 del 15.04.2025

Con l’ordinanza la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto, rigettando il ricorso di una lavoratrice che lamentava l’omessa concessione delle ferie, richieste poco prima della sopravvenuta malattia. La ricorrente sosteneva che quei giorni, se fruiti come ferie, avrebbero interrotto il comporto, impedendo così il recesso. La Cassazione ha precisato che il principio di conversione del titolo dell’assenza, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale, trova applicazione solo se il lavoratore è già in malattia e chiede espressamente di usufruire delle ferie al fine di sospendere il decorso del comporto. Tale meccanismo non opera se la richiesta di ferie è stata avanzata quando il lavoratore era in servizio, né può essere attivato retroattivamente, una volta che il periodo di comporto è stato superato. Nel caso di specie, la lavoratrice aveva presentato la domanda di ferie il 10 dicembre 2018, quando non era assente per malattia, e senza indicare alcuna esigenza urgente. L’azienda aveva motivato il rifiuto per esigenze organizzative, poiché erano già stati autorizzati altri due colleghi, e l’assenza simultanea avrebbe creato una scopertura critica. Secondo la Corte, in tali condizioni, l’esercizio del potere datoriale previsto dall’art. 2109 c.c. è pienamente legittimo. Inoltre, nel momento successivo in cui la dipendente si è ammalata, non ha reiterato la richiesta di ferie. La Cassazione ha ribadito che il diritto alle ferie può essere esercitato anche in malattia, ma solo attraverso una comunicazione chiara e tempestiva, con onere del lavoratore di attivare la valutazione da parte del datore. In mancanza di ciò, non può invocarsi né la buona fede, né la cooperazione omessa da parte datoriale. La decisione si inserisce in un orientamento rigoroso che riconosce il potere dell’impresa nella gestione delle assenze e afferma che il lavoratore non può autonomamente modificare il titolo dell’assenza per esigenze difensive, a posteriori.

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