Pubblicato il: 10 Aprile 2025

Nella newsletter di aprile potrai trovare alcune sentenze in materia di diritto del lavoro.

Il Focus di questo mese è: Licenziamento per simulazione di malattia di un medico: la Cassazione respinge il ricorso

Buona lettura della newsletter!

La Corte di Cassazione, si è pronunciata su un caso di licenziamento per giusta causa intimato a un medico, accusato di simulazione di malattia e di aver svolto attività libero-professionale durante il periodo di assenza dal lavoro. La Corte d’Appello di Catania aveva annullato il licenziamento, ritenendo che l’attività svolta dal lavoratore durante la malattia fosse limitata e non incompatibile con la prognosi medica di riposo prescritta dopo due interventi cardiovascolari. La Cassazione ha respinto il ricorso della società, confermando che il datore di lavoro non aveva fornito prove sufficienti per dimostrare la simulazione dello stato patologico. La decisione della Cassazione si basa su una rigorosa analisi dell’onere probatorio. La Corte d’Appello aveva accertato che la contestazione disciplinare riguardava esclusivamente la simulazione della malattia e non la violazione degli obblighi generali di correttezzadiligenza o fedeltà. Pertanto, l’attività libero-professionale limitata del medico non poteva essere considerata un elemento decisivo per provare l’insussistenza della malattia. Inoltre, la Corte ha sottolineato che la malattia non comporta necessariamente l’incompatibilità assoluta con qualsiasi attività lavorativa, ma solo con quelle che possono compromettere il recupero psicofisico. La società ricorrente aveva lamentato diverse violazioni procedurali e sostanziali da parte della Corte d’Appello, tra cui l’errata applicazione dell’articolo 2697 c.c. sull’onere della prova e la mancata valutazione di elementi indiziari come rapporti investigativi e documentazioni raccolte dalla Guardia di Finanza. Tuttavia, la Cassazione ha ritenuto che tali censure fossero inammissibili in sede di legittimità, poiché si trattava di questioni di merito già valutate dai giudici d’appello. La sentenza evidenzia un principio fondamentale: il datore di lavoro deve dimostrare in modo chiaro e univoco la simulazione dello stato patologico per giustificare un licenziamento per giusta causa. Nel caso specifico, le attività svolte dal medico durante il periodo di malattia erano limitate nel tempo e nell’impegno richiesto, risultando compatibili con le prescrizioni mediche. La Cassazione ha quindi confermato l’insufficienza delle prove presentate dalla società e ha respinto il ricorso.

Demansionamento: Cassazione conferma il diritto al risarcimento

Corte di Cassazione ordinanza n. 3400 del 10.02.2025

Con l’ordinanza della Corte di Cassazione – Sezione Lavoro ha confermato integralmente la decisione della Corte d’Appello di Milano che aveva riconosciuto un caso di demansionamento professionale in danno di un dipendente inquadrato al V livello del CCNL. Il lavoratore, adibito per un triennio a compiti inferiori e privi di contenuti tecnici e autonomia, ha visto riconosciuta non solo la dequalificazione ma anche il diritto a un risarcimento equitativo pari a 1.000 euro per ogni mese di demansionamento, per un totale di 13.500 euro. La Corte ha ritenuto corretto il giudizio di merito, che aveva accertato come le mansioni svolte non presentassero le caratteristiche tipiche del V livello, in quanto si trattava di attività standardizzate, gestite tramite software automatizzati, prive di autonomia e responsabilità. Il datore di lavoro, nonostante un precedente obbligo giudiziale di reintegra nelle corrette mansioni, aveva reiterato la condotta lesiva, aggravando la situazione. La Suprema Corte ha ribadito che il danno da dequalificazione è risarcibile anche in assenza di prova testimoniale diretta, purché siano presenti indizi gravi, precisi e concordanti, come la durata del demansionamento, la perdita di professionalità, la rapidità dell’innovazione nel settore e l’inadeguatezza delle mansioni assegnate. È stata inoltre esclusa ogni violazione normativa nell’interpretazione della declaratoria contrattuale, sottolineando che il procedimento di valutazione delle mansioni, ai fini dell’inquadramento, deve attenersi a una trilogia metodologica: analisi in fatto delle attività svolte, confronto con il contratto collettivo e verifica della coerenza tra le due. Respinte anche le censure sulla liquidazione del danno, in quanto l’importo stabilito non è risultato né irragionevole né sproporzionato. Il ricorso è stato pertanto rigettato, con condanna alle spese per la società ricorrente. La decisione rappresenta un importante richiamo al rispetto del principio di tutela della professionalità sancito dall’art. 2103 c.c., affermando la necessità per i datori di lavoro di garantire non solo il livello contrattuale formale ma anche il contenuto sostanziale delle mansioni assegnate.

Licenziamento per giusta causa e inadempimento non grave: la Corte conferma il reintegro

Corte d’Appello di Ancona n.93.2024 del 10.03.2025

La Corte d’Appello di Ancona, con questa sentenza affronta un caso di licenziamento per giusta causa di una dipendente che aveva svolto mansioni inferiori rispetto a quelle contrattualmente previste, oltre a non aver eseguito un’attività richiesta in un determinato turno lavorativo. L’azienda aveva ritenuto tale condotta grave inadempimento degli obblighi contrattuali, tale da ledere irreparabilmente il rapporto fiduciario. Tuttavia, la Corte, confermando la sentenza del Tribunale, ha ritenuto che la sanzione espulsiva fosse sproporzionata rispetto ai fatti accertati. Il cuore della decisione risiede nella valutazione della gravità dell’inadempimento. La lavoratrice non aveva tenuto un comportamento doloso né reiterato, e aveva comunque svolto la prestazione lavorativa seppur parzialmente diversa da quella indicata. Inoltre, mancava un’istruzione chiara ed esplicita da parte del datore di lavoro sull’attività da svolgere. La Corte ha evidenziato che non vi era stata una lesione significativa né del patrimonio aziendale né dell’organizzazione del lavoro, né tantomeno episodi pregressi che giustificassero un licenziamento senza preavviso. Il giudice d’appello ha richiamato i principi consolidati della Cassazione sulla proporzionalità della sanzione disciplinare, ribadendo che il licenziamento per giusta causa richiede un inadempimento tanto grave da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto. In mancanza di tali presupposti, il licenziamento risulta illegittimo. Il fatto che l’azienda avesse agito con eccessiva severità è stato considerato indice di un uso improprio del potere disciplinare, in contrasto con i principi di correttezza e buona fede. La Corte ha quindi confermato il diritto della lavoratrice al reintegro nel posto di lavoro e al risarcimento delle retribuzioni perse, ai sensi dell’art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970, ritenendo che non si trattasse di un caso meramente risarcitorio ma di una nullità del licenziamento per insussistenza della giusta causa. La sentenza si inserisce nel solco di una giurisprudenza che mira a evitare sanzioni estreme per condotte che, pur non pienamente conformi, non minano irreversibilmente il vincolo fiduciario tra datore e dipendente. Resta fermo il dovere del lavoratore di rispettare le indicazioni ricevute, ma spetta al datore dimostrare che la violazione abbia avuto una rilevanza concreta e non solo formale.

La Corte UE: sì all’indennizzo per ferie non godute anche se il lavoratore non le ha richieste

Corte di Giustizia 10.03.2025

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con questa sentenza torna sul tema della tutela del diritto alle ferie retribuite, riaffermandone la centralità nel sistema di diritti fondamentali dei lavoratori. Nel caso esaminato, un lavoratore tedesco aveva cessato il rapporto senza aver goduto di numerosi giorni di ferie, mai richiesti formalmente. Le autorità nazionali avevano negato l’indennizzo sostenendo che l’onere di fruire delle ferie spettasse esclusivamente al lavoratore. La Corte, tuttavia, ribadisce che il diritto alle ferie annuali retribuite, previsto dall’art. 31, par. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, non può essere perso per inerzia del lavoratore se il datore non ha posto il dipendente nella condizione di esercitarlo effettivamente. In questo senso, grava sul datore di lavoro l’obbligo di informare, in modo trasparente e tempestivo, circa i termini di fruizione delle ferie, stimolando il lavoratore a utilizzarle nel periodo utile. Solo qualora il datore dimostri di aver assolto a tale onere informativo, il mancato esercizio del diritto può condurre alla perdita dello stesso. In mancanza, invece, le ferie non godute danno luogo a un’indennità economica sostitutiva alla cessazione del rapporto, anche senza richiesta esplicita del lavoratore. Questa pronuncia si inserisce in un consolidato orientamento della Corte, volto a garantire l’effettività dei diritti sociali fondamentali e ad impedire che responsabilità organizzative e informative del datore vengano scaricate sul lavoratore. In pratica, il principio è che la protezione dei diritti non può essere subordinata all’iniziativa individuale, soprattutto in ambiti in cui vi è un naturale squilibrio tra le parti. Importante notare che la Corte chiarisce come non rilevi il fatto che il lavoratore ha ricevuto la documentazione relativa al diritto alle ferie (come nel caso dei cedolini paga), se il datore non prova che tali comunicazioni abbiano realmente consentito al lavoratore di esercitare consapevolmente e pienamente il diritto. In definitiva, la sentenza afferma un principio chiave: il diritto alle ferie retribuite ha carattere imperativo e deve essere garantito attivamente dal datore. La semplice mancanza di una richiesta non è sufficiente a privare il lavoratore di quanto gli spetta, a meno che il datore non provi di aver adempiuto a tutti gli obblighi di informazione e sollecito.

Lavoro Carcerario e NASpI

Cassazione civile ordinanza n. 4741 del 23.02.2025

La sentenza della Corte di Cassazione affronta una questione cruciale in materia di diritti previdenziali dei detenuti lavoratori: l’equiparazione del lavoro penitenziario al lavoro svolto nel libero mercato. Il caso verte sulla richiesta di NASpI da parte di un detenuto che, alla scadenza del contratto a termine, si è trovato involontariamente disoccupato. L’INPS aveva negato la prestazione sostenendo che il lavoro carcerario, per sua natura, non fosse assimilabile al lavoro ordinario, evidenziando la funzione rieducativa e le peculiarità organizzative del contesto penitenziario. La Corte d’Appello di Torino e successivamente la Cassazione hanno respinto le argomentazioni dell’INPS, sottolineando che il rapporto di lavoro intramurario conserva la sua natura subordinata, con diritti e tutele analoghe a quelle del lavoro libero. In particolare, è stato ribadito che lo stato di disoccupazione involontaria del detenuto non differisce da quello dei lavoratori ordinari, poiché la cessazione del contratto è avvenuta per scadenza naturale e non per decisione volontaria del lavoratore. La Corte ha inoltre richiamato il principio costituzionale secondo cui il lavoro va tutelato “in tutte le sue forme e applicazioni” (art. 35 Cost.), evidenziando che il fine rieducativo del lavoro carcerario non può limitare i diritti fondamentali dei detenuti-lavoratori. Un elemento centrale della sentenza è l’affermazione che il lavoro carcerario deve essere quanto più possibile assimilabile al lavoro libero, sia nei metodi organizzativi sia nelle tutele assicurative e previdenziali. La Cassazione ha sottolineato che la tutela previdenziale prevista dall’art. 38 Cost. non può essere esclusa per i lavoratori detenuti, indipendentemente dalle peculiarità del rapporto intramurario. Inoltre, è stato chiarito che l’involontarietà dello stato di disoccupazione deve essere valutata in base all’iniziativa del datore di lavoro e alla cessazione del rapporto, senza considerare vincoli legati allo stato detentivo. La sentenza riconosce un passo avanti nell’evoluzione normativa e giurisprudenziale sul lavoro penitenziario, erodendo progressivamente le differenze rispetto al lavoro ordinario. Questo approccio garantisce ai detenuti-lavoratori una maggiore protezione dei diritti fondamentali, favorendo il loro reinserimento sociale attraverso un trattamento paritario rispetto agli altri lavoratori.

Contratti a termine e abuso nel settore pubblico

Cassazione civile ordinanza n. 3470 del 11.02.2025

La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, affronta un tema cruciale relativo alla reiterazione abusiva di contratti a tempo determinato in ambito pubblico, con particolare riferimento al settore artistico. La vicenda riguarda un’orchestrale del Teatro di Messina che, dopo quindici anni di contratti a termine, ha richiesto la conversione del rapporto di lavoro in contratto a tempo indeterminato, oltre al risarcimento per il danno subito. Il caso è emblematico perché mette in luce le difficoltà interpretative della normativa italiana alla luce delle direttive europee (Direttiva 1999/70/CE) volte a prevenire gli abusi derivanti dalla successione di contratti a termine. La Corte d’Appello aveva rigettato le domande della lavoratrice, sostenendo che il Teatro, essendo un ente pubblico regionale, non poteva procedere alla conversione del rapporto ai sensi dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001. Inoltre, aveva escluso il superamento del limite massimo dei 36 mesi previsto dall’art. 5, comma 4-bis, del D.Lgs. n. 368/2001, considerando non computabili alcuni periodi lavorativi per effetto di regimi transitori e precedenti normative (legge n. 230/1962). Tuttavia, la Cassazione ha ribaltato questa impostazione, evidenziando che l’abusiva reiterazione dei contratti deve essere valutata nel suo complesso e non limitata alle disposizioni vigenti al momento della stipula dei singoli contratti. La Corte ha sottolineato che il principio fondamentale è la prevenzione degli abusi derivanti dalla successione di contratti a termine. Non è sufficiente giustificare la reiterazione con la natura temporanea degli spettacoli artistici; occorre verificare l’esistenza di ragioni obiettive, ossia circostanze precise e concrete che giustifichino l’utilizzo continuativo di contratti a termine. La Cassazione ha inoltre richiamato i principi europei in materia di lavoro subordinato nel settore pubblico e artistico, evidenziando che la distinzione tra lavoratori privati e pubblici non deve tradursi in una disparità ingiustificata. La sentenza ribadisce che il limite massimo dei 36 mesi deve essere applicato rigorosamente anche in presenza di regimi transitori e che le ragioni obiettive devono essere interpretate in modo restrittivo per evitare deroghe ingiustificate.

Estorsione del datore di lavoro nei confronti di un dipendente

Cassazione penale sentenza n. 7456 del 24.02.2025

La sentenza della Cassazione penale conferma la condanna per estorsione nei confronti di un datore di lavoro che aveva costretto il suo dipendente a mantenere la carica di amministratore della società pena il licenziamento. La Corte ha rigettato il ricorso di del datore di lavoro ritenendo che la minaccia di licenziamento, in un contesto di fragilità economica del lavoratore, costituisse una coartazione della volontà idonea a configurare il reato di estorsione. La Cassazione ha sottolineato che la condotta era finalizzata a garantirsi la prosecuzione indisturbata dell’attività imprenditoriale, facendo ricadere sul dipendente le responsabilità derivanti dalla gestione della società, poi fallita. La sentenza evidenzia come il datore di lavoro avesse approfittato della posizione di subordinazione del dipendente per ottenere un vantaggio ingiusto, integrando pienamente gli elementi costitutivi del reato di estorsione. La Corte ha inoltre precisato che non rilevava il fatto che il dipendente avesse continuato a lavorare per l’azienda anche dopo il fallimento della società né che il datore di lavoro avesse occasionalmente aiutato il dipendente, in quanto tali circostanze non escludevano la sussistenza della minaccia e del dolo estorsivo.

Responsabilità del Datore per Esposizione ad Amianto

Cassazione civile ordinanza n. 4084 del 17.02.2025

La Cassazione conferma la responsabilità di una società per la malattia e il decesso di un lavoratore a causa dell’esposizione ad amianto. La sentenza ribadisce l’importanza della tutela della salute dei lavoratori e la responsabilità del datore di lavoro nell’adozione di misure di prevenzione. La Corte ha riunito i due giudizi, uno civile e uno del lavoro, data la connessione e l’unitarietà della questione. I giudici di merito avevano già riconosciuto il nesso causale tra l’esposizione all’amianto e la malattia, basandosi su perizie mediche e testimonianze. La Cassazione ha ritenuto infondate le contestazioni di della società sottolineando che l’esposizione trentennale del lavoratore all’amianto, senza adeguate protezioni, configura una violazione degli obblighi di sicurezza del datore di lavoro.

Licenziamento per molestie e giusta causa

Cassazione civile ordinanza n. 6345 del 10.03.2025

La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, si occupa di un caso di licenziamento per giusta causa legato a condotte discriminatorie e minacciose sul luogo di lavoro. Il lavoratore era stato destituito per comportamenti ritenuti disonorevoli e immorali, consistenti in molestie sessuali verso una collega e minacce verso un superiore. La Corte ha confermato la legittimità del licenziamento, rigettando il ricorso del lavoratore. La decisione si fonda su principi consolidati in materia di tutela della dignità sul lavoro e contrasto alle discriminazioni. La Corte ha sottolineato che le frasi pronunciate dal lavoratore rappresentano molestie sessuali, definite come comportamenti indesiderati che violano la dignità della persona e creano un ambiente degradante. È stato dato rilievo sia al contenuto oggettivo delle condotte sia alla percezione soggettiva della vittima, evidenziando che non è necessaria una volontà esplicita di molestare per configurare la violazione. Inoltre, la recidiva del lavoratore e la gravità delle condotte, avvenute in presenza di altri colleghi, hanno aggravato la situazione, rendendo proporzionata la sanzione espulsiva. La Corte ha anche respinto i motivi di ricorso relativi alla presunta sproporzione del licenziamento, ribadendo che l’accertamento della giusta causa implica una valutazione dei fatti non sindacabile in sede di legittimità. Infine, è stata confermata la condanna del lavoratore alla restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza d’appello poi cassata. La decisione ribadisce l’importanza del rispetto dei valori etici e della dignità sul luogo di lavoro, ponendo un limite rigoroso a comportamenti discriminatori o intimidatori.

Licenziamento Ritorsivo

Cassazione civile ordinanza n. 6966 del 16.03.2025

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di una società confermando la sentenza della Corte d’Appello di Bologna che aveva dichiarato nullo il licenziamento di un guardia particolare giurata. La Cassazione ha ritenuto corretta la decisione della Corte d’Appello, che aveva ravvisato la natura ritorsiva del licenziamento, basandosi su una valutazione delle circostanze concrete del caso. Il lavoratore aveva subito contestazioni disciplinari pretestuose e l’assegnazione di un mezzo di lavoro inadeguato, elementi che, secondo i giudici, dimostravano l’intento della società di danneggiarlo. La sentenza sottolinea l’importanza della buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro e ribadisce che il lavoratore può legittimamente rifiutarsi di eseguire una prestazione se il datore di lavoro si rende inadempiente, a condizione che il rifiuto sia proporzionato all’inadempimento e non contrario alla buona fede. La Cassazione ha inoltre precisato che la valutazione della gravità e proporzionalità della condotta del lavoratore rientra nella competenza del giudice di merito, il cui giudizio è insindacabile in sede di legittimità se non viziato da errori logici o giuridici. Infine, la Corte ha confermato la condanna della società al pagamento delle spese di lite.

Licenziamento Legittimo per Abuso di Pause Lavoro

Cassazione civile sentenza n. 8707 del 2.04.2025

La sentenza in esame conferma la legittimità del licenziamento di un dipendente sorpreso ad abusare delle pause lavorative, frequentando il bar oltre i tempi consentiti. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore, avallando le decisioni dei giudici di merito che avevano ritenuto proporzionata la sanzione disciplinare. La pronuncia si fonda su un’attività investigativa svolta da un’agenzia, incaricata a seguito di sospetti fondati su dati GPS e segnalazioni, e avvalorata da testimonianze. Il caso solleva questioni delicate sul controllo dei lavoratori e sulla tutela del patrimonio aziendale, inteso anche come immagine e reputazione. La Cassazione ribadisce che il controllo investigativo è legittimo in presenza di sospetti di illeciti o comportamenti fraudolenti, e non solo per la verifica dell’adempimento della prestazione lavorativa.

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